Premio all’eccellenza Italiana in poesia,  undicesima edizione del concorso internazionale Città di Sarzana

COLLANA: Poesia

Autore: Maurizio Donte

Prefazione di Federico Cinti

Formato 15x21 cm
brossura 80 pagg.
isbn 979-12-81306- xxx
Prima Edizione Maggio 2024
Cat. 146






Prefazione


Ogni volta che si rimette mano all’aratro, a quell’«albo versorio» cantato dall’anonimo amanuense del cosiddetto Indovinello veronese, riaffiora inevitabile la domanda sull’autentico senso della creazione poetica. Tutto, in fondo, pare essere già stato espresso e in modo più compito di quanto si potrebbe fare in un’epoca come la nostra in cui, volenti o nolenti, ci si sente maceria tra macerie. Eppure, quando si ritrova in quella solitudine immensa, proprio allora il poeta sa di essere «voce di uno che grida nel deserto» (Gv 1,23), sa di essere chiamato a spandere, come la ginestra leopardiana, la propria odorata melodia, sa di strappare la parte migliore di sé all’infinita vanità del tempo. Così, solo così, quei rottami diventano le tessere di un eterno mosaico da comporre e ricomporre, anche se nell’immediato «il calcolo dei dadi più non torna» (E. Montale, La casa dei doganieri, 9) sul delirante «promontorio estremo dei secoli» (F.T. Marinetti, Manifesto del futurismo, 8) in cui fiero si erge.

Se arare quegli «alba pratalia» sembra essere ardua tenzone, perché si sfidano – per riprendere l’Orazio lirico – le annorum series et fuga temporum (carm. III 30, 5), impresa ancora più titanica risulta la traduzione di un’opera poetica.

In questo caso, infatti, non è sufficiente creare: occorre ricreare, non dal nulla, ma quasi dal nulla. Non è l’esattezza della parola o dell’espressione a rendere soddisfatto il traduttore, bensì la capacità di rivivificare un mondo lontano, quasi indistinto, rendendo autonomo il nuovo significante ai lettori contemporanei. Ci troviamo, in tal modo, davanti a un infinito gioco di specchi in cui le rifrazioni sono l’inesauribile sostanza d’un testo multiforme, capace d’arricchirsi via via che lo si modella e rimodella.

Non un’isola, quindi, bensì un arcipelago nell’oceano degli infiniti possibili, a definire l’infinita vitalità della parola e del suo araldo, si fa in tal modo la poesia assieme alle sue polimorfiche versioni.

In questo, che ai più pare un esercizio minore, quasi da mano sinistra, Maurizio Donte, traspositore dei trenta sonetti shakespeariani qui proposti, riesce nell’ardua impresa, tanto da rivivificare in modo personalissimo il Bardo elisabettiano.

Difficile la scelta tra i 154 componimenti, eppure efficace il distillato che copre la cangiante diffrazione d’un poetare che oggi pare lontano, frutto del magmatico manierismo ancora petrarchista imperante in quello scorcio di secolo XVI, quando tutta Europa si riconosceva nell’autore dei “Rerum vulgarium fragmenta” e dei “Triumphi”, proprio come il nostro poeta-traduttore.

Gioco di specchi, s’accennava più sopra, che non può se non attingere necessariamente all’autore e ai suoi modelli, con cui è in dialogo e in competizione, come nel ritratto del sonetto 130, in cui la Dark Lady ribalta il canone di bellezza ispirato da Laura, attingendo al biblico “nigra sum, sed formosa” (Ct 1,4).

Nella resa di Donte s’avverte, in filigrana, la dissimulazione di “Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura” di Pietro Bembo, senza tuttavia scadere negli eccessi antipetrarchisti di “Alla sua donna” di Francesco Berni.


Solo in questa cornice d’emulazione e imitazione, di echi e di specchi, può collocarsi un’operazione così ardita al limite dell’utopia, come è questa trasposizione.

Se, per restare al sonetto 130, il bersaglio polemico è l’immagine femminile, della quale si legge che «negli occhi tuoi non vedo il sole, / [e] di corallo non sono le tue labbra, / non son di neve candida i tuoi seni / e grigi filamenti hai sul capo» (vv. 1-4), non possiamo non rintracciare in controluce una polemica contro la ripetitività ossessiva di una maniera poetica che andava via via sfiorendo sotto l’azione centrifuga d’un mondo non più centro dell’universo.

Impossibile non cogliere le analogie con il crepuscolo della nostra epoca, in cui il reale cede pericolosamente il passo al virtuale, in maniera troppo simile a quanto accade nel palazzo d’Atlante d’ariostesca memoria.

Ecco dunque che la poesia e la sua trasposizione ci ridispongono davanti allo stupore primigenio del porto d’Alessandria d’Egitto, in cui «arriva il poeta / e poi torna alla luce con i suoi canti / e li disperde // Di questa poesia / mi resta / quel nulla / d’inesauribile segreto» (G. Ungaretti, Il porto sepolto).

In quelle eterne pagine Maurizio Donte, scaltrito poeta, è capace d’immergersi, di levigare la parola e il verso a proprio piacimento, restituendo vigore espressivo a testi confinati a una distanza apparentemente incolmabile.

Così, soltanto così, il traduttore assieme al bardo elogia il potere eternatore della poesia: «Col tempo sono in guerra per l’amor / che fugge via e che pur mi resta in cuore» (sonetto 15, 13-14). Unico rimedio all’oblio del tempo che, pure apparentemente ciclico, inesorabilmente avanza, per Shakespeare e per Donte resta l’arte sublime d’accordare sulle sillabe dei versi un “monumentum aere perennius” (Orazio, carm. III 1): «Non restasse l’essenza dell’estate, / imprigionata fra pareti in vetro, / nulla ricorderebbe la bellezza: / di lei non resterebbe la memoria, // ma i fiori scoloriti dall’inverno, / dell’estate conservano l’aroma» (sonetto 5, 9-14).

Superfluo sottolineare che la scelta stessa dei testi da tradurre rappresenta una dichiarazione di poetica dell’estensore dell’antologia, al punto che sue diventano veramente queste parole: «Niente / risparmia la natura, la sua falce / dimostra crudeltà, ma in questi miei / versi, bellezza sopravviverà» (sonetto 60, 11-14).

Il senso autentico di questa versione si coglie solo se si comprende che il mondo di Shakespeare è il mondo di Donte, è il nostro mondo post contemporaneo, frutto maturo e perenne radice di una tradizione inesauribile che corre pericolosamente verso l’ignoto del futuro, mirando nostalgicamente alle ombre del passato.

In questo la scelta di rendere il sonetto elisabettiano senza rime, se si eccettua il sonetto 40, risulta necessario compromesso per svincolarsi dal rischio di scelte lessicali o sintattiche paludate o arcaizzanti.

Solo in questo modo la forza irrefrenabile dell’amore, cantata nella maggior parte dei testi proposti, può emergere in tutta la sua attuale classicità e riappropriarsi dei richiami, tanto per fare qualche esempio, alla teoria amorosa di Andrea Cappellano (sonetti 46 e 47) oppure alle innervature d’una Weltanschauung ellenica, cui pure la più nobile delle poetesse, la Saffo dal seno di viola, si era rifatta nel frammento 16 V., traspare prima dissimulata nel sonetto 70, in un rovesciamento della kalokagathia greca, e viene quindi riproposta quasi integralmente nel sonetto 91 a ribadire che, nel canone del poeta, tutto è sottomesso a ciò che si ama.

Si scopre, a leggerlo e rileggerlo più volte, che i poli di questo magnifico libretto non sono altro se non l’amore e la poesia, l’uno fuso indissolubilmente nell’altra. L’azione del poeta traduttore è simile alla mano invisibile, eppure onnipresente e onnisciente, sotto la cui azione «cigola la carrucola del pozzo» (E. Montale, Cigola la carrucola del pozzo, 1): Euridice e Narciso riemergono dal baratro per vivere e rivivere di nuovo e per sempre, guardando avanti e volgendosi indietro.

Lo specchio ritrova il suo simbolo perenne negli occhi e nel cuore di chi scrive, di chi traduce e di chi legge. In fondo, questo significa oggettivare ciò che, di per sé, non avrebbe voce o parola. Ogni poeta è traduttore, di altri o del proprio mondo: sa bene che ogni raccolta, ogni lirica, ogni parola è come la musica, vera e unica, perché irripetibile. Sotto questo punto di vista, l’impossibilità di tradurre diviene l’unico modo per preservare quel tesoro che non ha altro forziere se non l’esecuzione. In tal modo, ancora una volta,emerge l’arte raffinatissima di Maurizio Donte, assimilabile all’inesprimibile canto di Matelda che, nel Paradiso terrestre, sa scegliere mirabilmente «fior da fiore» (Purg. XXVIII 41).


 Federico Cinti


  









L'autore



Maurizio Donte nato a Imperia, nel 1962, da sempre appassionato di scrittura poetica degli autori classici, è stato premiato vincitore in numerosissimi concorsi Nazionali e Internazionali ed è stato commentato e recensito con onore dai più grandi esponenti della Critica Letteraria Italiana.

Ha scritto numerose sillogi poetiche, tra le quali le più note sono: il Canzoniere II (Rerum vulgarium fragmenta II) sulle orme di Francesco Petrarca, il suo seguito Rime ExtraVaganti, i poemi epici brevi Gotterdammerrung e Beowulf e questa antologia dei suoi migliori sonetti, sempre per Maurizio Vetri editore.


Gli ultimi grandi successi letterari, ottenuti nel corso del 2022, sono:

Il Premio all’Eccellenza per l’opera in quattro volumi, (Rerum Vulgarium Fragmenta) IL CANZONIERE II, al Concorso Internazionale di Sarzana e la Vittoria alla prima edizione del Concorso Nazionale Lungofiume di Pisa, col sonetto Mountains of Valais.

Le sue poesie sono tradotte in inglese dal famoso poeta e acquarellista Peter Weevers e in polacco dalla poetessa Isabella Teresa Kostka.