COLLANA: Paginediteatro


Autore: Gianni Virgadaula

 

Formato: 15x21 cm - brossura - 80 pagine

Copertina: Studio Maurizio Vetri

Prima edizione: Marzo 2018

isbn 978-88-99782-30-6

Prezzo di copertina: Euro 12,00



Presentazione

 

Introduzione di Massimo Mondini

 

All’ingresso nella Prima Guerra Mondiale, nel maggio del 1915, l’Italia schierò un’aviazione composta da appena un centinaio di velivoli, tutti obsoleti, e un pari numero di piloti. L’Impero Austro-Ungarico non era di certo messo molto meglio, ma certamente l’esperienza acquisita sugli altri fronti nei mesi di guerra precedenti gli aveva fornito un sicuro vantaggio, se non altro nella preparazione degli uomini e dei mezzi aerei. Gli Stati Maggiori Italiani, invece, dalla guerra combattuta in terra d’Africa appena pochi anni prima, nel 1911 e 12, contro l’Impero Ottomano per la conquista della Libia, e che aveva visto per la prima volta al mondo l’utilizzo del mezzo aereo in un conflitto armato, poco avevano imparato e quasi nulla tratto da un’esperienza che aveva, a grandi linee, già delineato quello che sarebbe stato il futuro impiego militare dei velivoli negli anni a venire. In Libia l’Italia aveva portato una modesta flottiglia di aerei, una composita schiera formata da traballanti pionieristici velivoli pilotati da militari e civili ma che, con i loro voli arditi sulle truppe nemiche, erano risultati determinanti per l’esito positivo del conflitto a favore dell’Italia. In quei voli si erano sperimentate le prime ricognizioni fotografiche, i primi rudimentali bombardamenti aerei, i primi voli notturni alla ricerca delle postazioni nemiche, ma, salvo pochi ufficiali lungimiranti, molti dei generali degli Stati Maggiori, provenienti dalle scuole militari ottocentesche e poco aperti alle novità, vedevano la nascente aviazione, ancora a ridosso dell’entrata nella guerra 1915-18, come un corpo estraneo nell’ambito delle strategie militari, un mezzo, l’aereo, più sportivo che adatto a scopi militari. 

Di quella guerra di Libia parla Baracca nelle sue lettere alla madre. È un giovane ufficiale del “Piemonte Reale Cavalleria” e vede partire i soldati per la terra d’Africa, ma non il suo Reggimento; di questo si dispiace, vorrebbe anche lui partecipare e rientra ogni sera scontento all’alloggio, vinto dalla noia e dalla frustrazione. E forse é grazie proprio a questo stato d’animo e alla frustrazione di non essere con gli altri a combattere che nasce l’idea di scrivere quella domanda per frequentare un corso di pilotaggio, una strada che una volta intrapresa svelerà in breve le sue doti naturali di aviatore, fino a divenire nel breve volgere di pochi mesi di guerra l’Asso degli Assi della nostra aviazione

Con pochi velivoli e male armati, si diceva, entrava in guerra L’Italia; spesso neppure armati. Bisognerà attendere che la Francia ci fornisca aiuti aeronautici consistenti e le nostre fabbriche inizino a costruire su licenza aerei più moderni perché si possano vedere sui cieli del fronte Italo – Austriaco i primi velivoli da caccia e ricognizione in grado di competere alla pari con quelli della Imperial Regia Aviazione Austro-Ungarica. E per il primo successo italiano si dovrà attendere il 7 aprile del 1916, un abbattimento proprio ad opera di Baracca. 

Una guerra solitaria ed elitaria quella combattuta dagli aviatori sulle teste delle truppe ammassate nelle trincee a terra, dove in un cielo che diveniva un’arena medievale si fronteggiavano moderni cavalieri in duelli aerei mozzafiato; cabrate e picchiate, giravolte e virate, manovre per sorprendere l’avversario ed abbattere l’aereo con il tiro della mitragliatrice. Abbattere l’aereo…è questo l’intento; non si cerca per forza la morte dell’avversario. Francesco Baracca, anche quando la guerra si farà più dura e sanguinosa, quando maggiori saranno le perdite della nostra aviazione, mostrerà perplessità ad usare le pallottole incendiarie contro i velivoli nemici: prova orrore e compassione per i tanti aviatori che vede lanciarsi da grandi altezze fuori dai velivoli incendiati per scampare al fuoco. Come cavalieri medievali gli aviatori dipingono le loro fusoliere con colori sgargianti, mettono insegne personali; non vogliono nascondersi ma, anzi, farsi riconoscere quando incrociano l’aereo avversario: Baracca ha il cavallino rampante, Fulco Ruffo il teschio, Ranza la scala, Keller l’asso di cuori, Osnago il volto che ride, Parvis la mezza luna, de Bernardi la fiamma…e per la 91^ Squadriglia, la Squadriglia degli Assi, Baracca aveva scelto il grifo, metà aquila e metà leone: ”I nemici riconoscevano da lungi, tra gli squarci delle nuvole e il fiammeggiare del sole, le insegne dipinte sugli apparecchi”. Non è raro, almeno nel primo periodo della guerra, che il nemico abbattuto ma atterrato salvo in un campo venga portato, prima della prigionia, al circolo per scambiare quattro chiacchiere e per un brindisi con i piloti della base. Gli italiani sanno tutto delle vittorie di Brumowski, l’asso austriaco che vola su un aereo dipinto tutto di rosso con due teschi ai lati, così come gli austriaci del nostro Baracca e del suo cavallino rampante. 

Tante le vittorie di Baracca e forse tante altre ne sarebbero arrivate se in quel tiepido tardo pomeriggio del 19 giugno 1918 non fosse giunta al Campo d’aviazione, inaspettata, quella telefonata dall’Alto Comando. Baracca è sceso da poco dal suo aeroplano dopo una giornata intensa di volo; sono giorni decisivi per le sorti della guerra: gli Austriaci resistono e contrattaccano sotto la pressione della fanteria italiana. I cieli del fronte sono ormai dominati dall’Aviazione Italiana ma alla caccia si chiede di appoggiare la nostra fanteria, che sta premendo verso Nervesa, con azioni di mitragliamento sulle linee nemiche. Alle 18.15 Baracca ridecolla dal campo assieme al suo gregario Osnago. Un volo radente sulle trincee nemiche, avanti Baracca e dietro Osnago che “alza gli occhi dal collimatore della mitragliatrice e si ritrova solo”. Ancor oggi si discute sulle cause della morte di Baracca, su chi abbia tirato quel colpo conficcato nel suo cranio. La versione ufficiale è che sia un colpo partito da terra, da una trincea austriaca; gli austriaci si accreditarono l’abbattimento da parte di un loro velivolo; la più fantasiosa e, credo, inverosimile è quella del suicidio per non perire lentamente tra le fiamme dell’aereo incendiatosi. Di certo questa morte gli negò la gioia della vittoria finale italiana, ma gli risparmiò se non altro il vedere lo scriteriato smantellamento nel dopoguerra di quel potente apparato di uomini e mezzi, chiamato Aviazione Italiana, costruito con fatica nel corso del conflitto a cui tanto egli stesso avevo contribuito. 

Mario De Bernardi in un suo racconto narra di quella volta che, riuniti a mensa chiacchierando, Baracca ripeté le ultime parole di Napoleone ”Alla mia morte ciascuno di voi, o miei amici, avrà la dolce consolazione di tornare tra i suoi. E mentre voi rivedrete i parenti io - parafrasando le parole di Napoleone - incontrerò gli amici e i nemici – Guynemer e Boelke – Pégoud e Richtofen – Olivieri e Immelman e parleremo della nostra guerra, insieme ai capitani d’un tempo! Quale piacere sarà mai questo!

”L’orazione funebre a Baracca non poteva non essere scritta e letta che dal Vate; il poeta aviatore, colui che con le sue imprese eclatanti aveva sospinto gli animi, cantato l’ardimento e l’amor di patria: Gabriele d’Annunzio. Due mesi dopo la tragica fine di Baracca sarà una sua impresa incruenta e dimostrativa a mettere il sigillo morale sulla vittoria finale italiana: il Volo su Vienna con la 87^ Squadriglia “Serenissima” ed il celebre volantinaggio sulla città. Baracca e d’Annunzio, uomini tanto diversi, storie tanto diverse ma nelle quali affondano, e si alimentano ancor oggi, le radici della Regia Aeronautica e dell’Aeronautica Militare poi. 

A cent’anni dalla scomparsa di Baracca, Gianni Virgadaula con questa sua opera non soltanto rende un doveroso omaggio all’eroe italiano più amato della Prima Guerra Mondiale, ma nel dramma della sua morte sul campo di battaglia sembra voler accomunare le morti delle centinaia di migliaia di soldati italiani, venuti da ogni contrada d’Italia, che neppure parlavano una stessa lingua, morti o mutilati nel corpo per la costruzione di una Patria comune. Baracca è la sintesi dei sentimenti che animarono quei soldati, la luce a cui guardare, l’esempio da seguire, il coraggio e il sacrificio da emulare.

 








Autori


Gianni Virgadaula è nato a Milano da genitori siciliani.

Regista, scrittore, sceneggiatore, giornalista-pubblicista, si è formato professionalmente a Roma dove ha frequentato la Libera Università del Cinema di Cesare Zavattini.

Ha collaborato con importanti maestri del cinema italiano quali Federico Fellini, Nanni Loy e Pupi Avati.

Conosciuto anche come il “regista dei santi”, ha realizzato diversi docu-film a tema religioso. Tra questi due lungometraggi sulle grandi martiri Agata e Lucia.

Fra i suoi film più apprezzati l’horror Lèmuri, il bacio di Lilith (2009), omaggio al cinema espressionista tedesco, distribuito negli Stati Uniti con il titolo Lilith, a Vampire Who Comes Back. Ed ancora: “La Domenica del Signore” (2013) e “Gelone, la spada e la gloria”(2018).

Studioso del cinema delle origini, fa parte dell’Associazione Italiana per le Ricerche di Storia del Cinema.

Nel 2002 ha fondato l’Istituto Culturale di Sicilia per la Cinematografia – Onlus, che nel 2015 ha portato alla nascita del Museo del Cinema “Pina Menichelli” di cui è direttore.

E’ stato consigliere nazionale dell’Unione Cattolica Stampa Italiana.

Dal 2009 è direttore responsabile del periodico Sicilia Cinema.Sue ultime pubblicazioni Little John, campione di cantina (2000, Firenze libri), La notte del vino amaro (2011, Edizioni Arianna), Una vita da set (2013, Edizioni Arianna), Charlie e Adolf (2017, Maurizio Vetri editore). I grandi pesi medi, da Jack Nonperail a Marvin Hagler (2017, Edizioni Arianna