COLLANA POESIA

Autore: Maurizio Donte

Formato: 15x21 cm

brossura 88 pagine

Illustrazione di copertina: Maurizio Vetri

Prima edizione: dicembre 2023

ISBN 979-12-81306-17-2

Prezzo di copertina: Euro 13,00


Presentazione 

Sul limitare 

Basterebbe fermarsi sulla soglia, al titolo, per comprendere la mirabile architettura di quest’opera di Maurizio Donte: nell’Arte del sonetto riecheggia, in modo nemmeno troppo dissimulato, “Die Kunst der Fuge” di J.S. Bach. Il sublime poeta, come già il musicista metafisico, esprime in una formula potentemente sintetica la propria poetica.

La poesia è in primis et ante omnia mestiere, ars in senso etimologico. Nulla può, nulla deve essere lasciato all’improvvisazione, al dilettantismo, ma deve essere riconsegnato all’impulso dell’occasione, al lampo del kairos, in quanto altro non è se non «una docile / fibra dell’universo» (G. Ungaretti, I fiumi, 30-31). In controluce s’avverte la velata polemica leopardiana contro gli snervati versificatori del secolo decimonono, epoca in cui lo stupito fanciullo di Recanati «chiedea: / – Musa, la lima ov’è? – Disse la dea: – La lima è consumata; or facciam senza. – / Ed io: – Ma di rifarla / non vi cal? – soggiungea – quand’ella è stanca? – / Rispuose: – Hassi a rifar, ma il tempo manca –» (G. Leopardi, Scherzo, 13-18). Nulla di più evidente, in quel travagliato inizio Ottocento, e in questi primi decenni di III millennio: il labor limae languiva alle penne dei più, non diversamente da oggi, allo stile di chi riteneva – e forse ancora ritiene – che l’otium letterario sia una magnifica, eppure inutile, perdita di tempo.

Se nell’arte del contrappunto, in un’ascesa che si fa ascesi, consiste l’Arte della Fuga, nella variazione del tema, in un’infinita diffrazione che si fa specchio e riflesso, consiste l’Arte del Sonetto.

Ne è ben consapevole Donte, quando elegge a suo schema il sonetto, nato nella Magna Curia fridericiana dal genio di Iacopo da Lentini, il Notaro per eccellenza.

Congegno perfetto, filiazione come “cobla esparsa” di canzone provenzale, tale schema mostra tutta la sua freschezza e la sua vitalità tra le dita del bardo di Imperia.

Non poesia demodé, quindi, arcaizzante, relegata agli studi e ai ricordi scolastici, bensì illuminazione capace di comunicare al cuore emozioni e sentimenti eterni.

Altra polvere di stelle, caduta de sideribus, i settantadue componimenti di questa silloge, che immobilmente avanzano, simili alle onde del mare, basso continuo di tante liriche, sospirano all’anima d’un tempo che non c’è più e d’uno che ancora ha da venire, disincantata nostalgia di chi, come il poeta senex può affermare senza rimpianti:

 «Me tabula sacer / votiva paries indicat uvida / suspendisse potenti / vestimenta maris deo» (Orazio, Odi, I,5, 13-16) 1 

Basterebbe fermarsi in limine, s’accennava, se la prima lirica, “L’incontro con Francesco Petrarca”, non si presentasse come ulteriore e consapevole dichiarazione di poetica. L’autore dei “Rerum vulgarium fragmenta” è programmaticamente definito «il mio maestro», sebbene dai più dimenticato, nel silenzio in cui «da tempo tace».

Donte è «giunto in cima all’alta vetta / dove dimora e vive nella pace» il cantore di Laura, in una personale ascesa alla ricerca della rarefazione poetica di cui tanto difetta il circo mediatico in cui la letteratura, ai nostri giorni, sembra farsi solo vile mercimonio. Se Ennio, in una visione onirica, aveva ricevuto direttamente da Omero il mandato di comporre un poema epico, ora è Petrarca a rassicurare il suo erede contemporaneo a non preoccuparsi d’altro se non di fermarsi su quella eterea cima a contemplare fuori e dentro di sé. Il suo comando è perentorio: «e la salace / bocca dell’altri a dir tanto incapace / lascia che passi in ciel come saetta / che nasce e nell’istante stesso muore».

Il motivo polemico s’esplicita in modo chiaro. Il tempo si è fatto breve: la poesia deve risorgere, come l’araba fenice, dalle sue ceneri e spiccare il volo.

La variazione sul tema e sullo schema prosegue, allusivamente, pure nel secondo componimento, “E poi saremo polvere nel vento”, il cui attacco riecheggia un altro poeta tanto caro a Donte, Ugo Foscolo. Nella «e» d’abbrivio sospira la sospensione di tanti incipit foscoliani, «Né più mai toccherò le sacre sponde», «E tu ne’ carmi avrai perenne vita», «Forse perché della fatal quïete».

Un attacco di questo tipo rimanda, per riprendere l’imprescindibile annotazione di Gianfranco Contini, «a una continuità del detto col non detto». E non solo il poeta di “A Zacinto”, bensì pure il Carducci giovane, il filofoscoliano Marradi di “Mar Toscano” e di “Ombre e penombre”, e il Pascoli dei Gattici, del Lampo, del Tuono e del Gelsomino notturno danno senso a questo modo di procedere, quasi s’attingesse a quell’esperienza che, pure del poeta, ridonda in ognuno dei suoi lettori.

Donte si trova, come l’antico Narciso, a guardare «l’altra riva» e non gli rimane «che il navigare incerto, senza meta, / su pieghe in cui si perdono certezze, / insieme a gioie avute e ad amarezze», finché non si giunge, in una chiusa desolata, «all’urna più segreta», estrema memoria latente del Foscolo sepolcrale («All’ombre de’ cipressi o dentro l’urne / confortate di pianto è forse il sonno /della morte men duro?», (Carme dei sepolcri, 1-3) e del Pascoli di Castelvecchio («si cova / dentro l’urna molle e segreta», Il gelsomino notturno, 22-23).

Consapevole delle incertezze insite più nel presente che nel futuro, il poeta tende – già a partire dal terzo sonetto – a volgersi indietro, a ricercare ciò che ha perduto, ciò che anzi sembra non avere mai avuto. In tal modo, il canto lirico diventa, per Donte, l’unico antidoto vero contro la morte, la dissoluzione, l’oblio. Di nuovo Orfeo s’inabissa tra le profondità d’Averno per strappare al mondo dei morti quella voce, quel volto, quella donna.

Euridice l’attende impaziente: altro desiderio non ha se non di tornare a bere la luce del sole. Eppure, il poeta sa che non è possibile: sa che non è dato ad alcuno violare le leggi della necessità. Ecco che profondarsi in sé, come il poeta palombaro che «arriva» nell’antico porto nascosto d’Alessandria «e poi torna alla luce con i suoi canti / e li disperde» (G.Ungaretti, Il porto sepolto, 1-3), è scandaglio doloroso e inevitabile.

Così, il dialogo con l’amata d’un tempo attinge direttamente al mito del primo cantore: nel rivederla, afferma stupito che «mi fan tremare i tuoi begli occhi il cuore: / donna mia torni, silenziosa e cara, come quell’ombra che alla sera, amara, / scivola dentro per parlar d’amore». Il poeta è ben conscio che ella, come la giovinezza, è «sogno che fugge dal vero / mio sentire nell’anima quel senso / di stordimento che mi fa morir / d’amore». la via è tracciata: l’amore, il dubbio, la vertigine, la fuga del tempo sono i temi prediletti del poetare di Donte.

Amore e giovinezza tendono a confondersi nella memoria d’una felicità solo intravista, mai vissuta appieno. La prospettiva del presente si fa scialba premonizione d’una humana condicio che procede incerta sul sentiero della precarietà. E in questo, proprio in questo, s’avverte il Leitmotiv di questa silloge.

Nulla vale quanto la coscienza di dover resistere, di dover volgere gli occhi al cielo, di riuscire a mantenere integro il filo degli affetti più intimi, perché l’amore assume anche il volto del padre, come nel venticinquesimo sonetto, “Lascia ch’io pianga”, o nel ventiseiesimo, “Riposa, padre mio”, nel ventisettesimo, “Come una fiamma”, come quello tutto spirituale del Signore dei cieli, nel sonetto trentunesimo, “Dimmi Signore mio”, ripresa evidente di «Padre del ciel, dopo i perduti giorni, / dopo le notti vaneggiando spese, / con quel fero desio ch’al cor s’accese / mirando gli atti per mio mal sì adorni» (Rvf LXII, 1-4).

 Amore sacro e amore profano trovano, in questo modo, la loro sintesi perfetta: la silloge si chiude, ad anello, con un ennesimo omaggio a Johann Sebastian Bach, in un Epilogo che è declinazione lirica della Piccola Fuga in Sol Minore (BWV 578 ) e della Toccata Dorica (BWV 538).

Ogni poesia meriterebbe, come è facile intuire, un’analisi approfondita, circostanziata, un minuzioso scavo delle fonti, della costruzione, degli aspetti fonico-timbrici, del lessico.

Si è deciso, tuttavia, di restare programmaticamente sul limitare, si è preferito dare qualche spunto di lettura, perché “ex ungue leonem”.

Nulla è lasciato al caso, in questa pregevole silloge. Lo studioso avrà modo di saggiare il complesso universo lirico di Donte, l’appassionato di poesia s’immergerà in un mare di emozioni, suoni, immagini da cui uscire profondamente mutato e cresciuto, il lettore occasionale scoprirà che è ancora possibile nel grigiore quotidiano lasciare spazio ai sentimenti autentici.

Con quest’ancora di salvezza, per queste acque tranquille, anche la «piccioletta barca» del prefatore può intravedere la meta, non perché «a l’alta fantasia qui manchi possa», bensì perché sarà la sapienza del poeta timoniere a condurla felicemente nel porto a contemplare «l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Paradiso. XXXIII 145). 

Federico Cinti




Maurizio Donte 

nato a Imperia, nel 1962, da sempre appassionato di scrittura poetica degli autori classici, è stato premiato vincitore in numerosissimi concorsi Nazionali e Internazionali ed è stato commentato e recensito con onore dai più grandi esponenti della Critica Letteraria Italiana.

Ha scritto numerose sillogi poetiche, tra le quali le più note sono: il Canzoniere II (Rerum vulgarium fragmenta II) sulle orme di Francesco Petrarca, il suo seguito Rime ExtraVaganti, i poemi epici brevi Gotterdammerrung e Beowulf e questa antologia dei suoi migliori sonetti, sempre per Maurizio Vetri editore. 

Gli ultimi grandi successi letterari, ottenuti nel corso del 2022, sono:

Il Premio all’Eccellenza per l’opera in quattro volumi, (Rerum Vulgarium Fragmenta) IL CANZONIERE II, al Concorso Internazionale di Sarzana e la Vittoria alla prima edizione del Concorso Nazionale Lungofiume di Pisa, col sonetto Mountains of Valais.

Le sue poesie sono tradotte in inglese dal famoso poeta e acquarellista Peter Weevers e in polacco dalla poetessa Isabella Teresa Kostka.